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Attualità lunedì 09 settembre 2019 ore 12:33

"Essere infermiere in carcere oggi è una sfida"

L'infermiera Monica Pusceddu attraverso Opi Firenze Pistoia, racconta la vita all'interno del carcere sottolineandone problemi e criticità operative



FIRENZE — L’infermiere non è solo il professionista che opera nelle strutture ospedaliere, Monica Pusceddu, infermiera che opera nel settore della sanità penitenziaria della USL Toscana Centro lo racconta attraverso Opi Firenze Pistoia ricordando l'aggressione avvenuta a metà agosto all'interno della casa circondariale. L’utenza attuale del carcere di Sollicciano comprende circa 800 detenuti.

"Essere infermiere in carcere oggi è una sfida, sia professionale che etica, perché, come ci ricorda l’articolo 3 del nuovo codice deontologico, “l’infermiere si astiene da ogni forma di discriminazione e colpevolizzazione nei confronti di tutti coloro che incontra nel suo operare”. Ci troviamo a dover gestire sia culture differenti dalla nostra che persone socialmente svantaggiate per cui, a prescindere dal reato commesso (del quale non dobbiamo essere a conoscenza, né eventualmente tenere conto), è fondamentale la presa in carico del paziente" racconta Monica Pusceddu.

Pusceddu aggiunge "Sono diverse le problematiche che ci ritroviamo ad affrontare: dalle lunghe distanze date dai corridoi che separano l’infermeria da alcune zone del carcere dove potrebbero trovarsi i pazienti da soccorrere, agli interventi infermieristici che vanno sempre coordinati con la polizia penitenziaria per ragioni di sicurezza. Gli ambulatori non sono totalmente sotto la gestione dell’USL Centro anche dal punto di vista della manutenzione, per cui molto spesso, per interventi urgenti (come per esempio allagamenti, infiltrazioni, imbiancature e illuminazione elettrica) dobbiamo rivolgerci agli uffici tecnici dell’amministrazione penitenziaria che non sempre ha i mezzi per sopperire ad alcune esigenze. Inoltre gli spazi a noi riservati sono angusti, fatiscenti e talvolta con poca illuminazione e l’assistenza da erogare diventa difficoltosa anche per queste concause".

Inoltre "La complessità assistenziale è data anche dalle diverse etnie che compongono il bacino di utenza e dal livello culturale e sociale medio-basso: spesso i detenuti provenienti dall’Africa sub-sahariana hanno frequentato a malapena le scuole elementari e non avendo beneficiato nel loro paese di un servizio sanitario strutturato si ritrovano per la prima volta ad avere a che fare con una istituzione sanitaria ben definita. Il detenuto che si vede privare della propria libertà utilizza spesso degli atteggiamenti manipolatori nei confronti del personale sanitario, mettendo in atto gesti autolesivi, talvolta di poco conto, talvolta di grave entità come i tentativi di suicidio, che nell’ultimo anno purtroppo in alcuni casi sono stati portati a termine. Il detenuto si trova a fare richieste non conformi, molto spesso dal punto di vista terapeutico, che l’infermiere o il medico gli devono negare. Nella relazione di fiducia paziente/infermiere quando queste richieste non vengono soddisfatte capita che il detenuto risponda con aggressioni sia verbali che fisiche". "Un importante percorso attivo è il monitoraggio delle malattie infettive: questo fa sì che i pazienti vengano intercettati e curati subito ma anche che ci sia una risonanza positiva sulla cittadinanza nel momento in cui il detenuto tornerà libero".

Il resoconto operativo tra le pareti del carcere si conclude con una analisi degli aspetti da migliorare "la base di tutto è sicuramente la formazione, poiché attualmente si parla troppo poco di infermiere penitenziario e anche all’interno delle università dovremmo iniziare a orientare i futuri professionisti verso questa realtà. Quello che potrebbe aiutare nel miglioramento della qualità dell’assistenza è senz’altro una sempre maggiore interazione e un confronto con gli altri servizi, sia territoriali che ospedalieri. Non da meno è il problema della sicurezza che è costantemente al vaglio dell’amministrazione penitenziaria e dell’azienda sanitaria che necessariamente devono coordinarsi e integrarsi al fine di ridurre al minimo il rischio. Oggi dovremmo puntare molto di più sull’informazione su casi limite come l’aggressione dello scorso 14 agosto, per poter formare i colleghi in modo che sappiano affrontare situazioni critiche e di conflitto con l’utenza".


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